David Gray

(1968, Manchester, Inghilterra, Regno Unito)

David Gray è uno che se l’è meritata. Cresciuto in Galles, faceva il cantautore da un pezzo e non se ne accorgeva anima viva. A un certo punto si registrò un nuovo disco tutto da solo, e non glielo promosse nessuno, eppure glielo comprò mezza Irlanda, va a sapere per quale intuito musicale. Alla fine, qualcuno si convinse a investirci, e fece sfracelli in tutto il mondo. Lo paragonano soprattutto a Van Morrison, è un bravo songwriter pop, da allora ci marcia e infila solo canzoni piacevoli, e alcune belle.

Please forgive me
(White ladder, 1999)
“Please forgive me if I act a little strange, for I know not what I do”: le parole con cui Gray si presentò al grande pubblico escono dalla sua bocca con una specie di insistenza, di soddisfazione, sospinte. Fanno venire voglia di cantare. E anche di un unplugged, con meno fronzoli.

Babylon
(White ladder, 1999)
La canzonetta perfetta di David Gray: chitarra, sintetizzatori e batteria elettronica. E la sua voce. E quell’ottimismo solare raro nei cantautori suoi contemporanei, per cui alla fine tutto si risolve: hanno litigato, ma lui torna a casa, e lei è contenta.

This years love
(White ladder, 1999)
Dopo il successo, circolava questa battuta: che in Inghilterra ci fosse più gente che possedeva White ladder di quanta possedesse una vera scala (ladder). Il disco è il quindicesimo più venduto nella storia della musica britannica (primo è Sergeant Pepper). Questa è la ballatona sentimentale con il pianoforte, che dice che malgrado le briscole precedenti, questa sarà la volta buona.

Say hello wave goodbye
(White ladder, 1999)
Era già una stupenda canzone dei Soft Cell, a cui mancava di essere sottratta alla patina melodrammatica e un po’ kitsch propria degli arrangiamenti di quel tempo. Ci pensò David Gray. La rese acustica, solo lui, la chitarra e una base quasi trasparente, e la tirò in lungo per nove minuti. Il testo è stupendo, monologo di una storia borderline nata male e finita male, e dell’orgoglio di chiuderla. “Quanto a me, beh, troverò qualcuno che non si venda per poco. Una casalinga carina che mi offra una vita tranquilla e senza idee strane in testa”.

If your love is real
(Lost songs 95-98, 2001)
Fu pubblicata in una raccolta dopo il successo di White ladder. A differenza dei dischi successivi, aveva un arrangiamento minimo, la chitarra e la voce sospirata di Gray: “three days spent staring at your photograph...”.

Be mine
(A new day at midnight, 2002)
Una specie di rap lento, con un testo da innamorati piuttosto banale (“notte o giorno, sole o pioggia”), ma il maestro di queste cose, Cole Porter, non avrebbe mai pensato di inserire tra le coppie antagoniste “centigrade or fahrenheit” né le due sobrie bestemmie “jumping jesus holy cow”.

The other side
(A new day at midnight, 2002)
Inizia che pare “Lo stambecco ferito” di Venditti, ma poi ci mette un po’ a guadagnare fascino. Ci vuole che parta la batteria elettronica e che la grave insistenza del pianoforte si faccia largo.

Slow motion
(Life in slow motion, 2005)
A new day at midnight era stato un po’ una delusione, e forse troppa l’attesa. Il secondo disco dopo il boom di White ladder invece assestò le canzoni di David Gray su una maniera di grande talento. Sembrava ancora di averle già sentite, sì: però erano belle. Questa è anomala, inesorabile, con una strofa dai versi ripetuti – degli slogan – e al posto del ritornello una specie di coro canticchiato dallo stesso Gray. Bella, appunto.

Ain’t no love
(Life in slow motion, 2005)
Qui è Neil Diamond, un casino. Nella voce e nel modo di cantare. La strofa è ancora una specie di rap gallese, di frasi precipitate: “onwintertreesthefruitofràinishangingtremblinginthebrànches”. In concerto, Gray la presenta come “un inno all’assenza di Dio”, ma è un inno che fa i conti con il senso di vuoto conseguente.

Hospital food
(Life in slow motion, 2005)
Quello che mancava nel disco precedente, tra l’altro, era la popsong da classifica, alla “Babylon”. Eccola qua. Il cibo da ospedale è la sbobba che il mondo e in particolare i media ci rifilano ogni giorno, e che ci mangiamo, rincoglioniti: “ditemi qualcosa che non sappia già”. Arrivò solo al trentaquattresimo posto nei singoli (il cd era stato al numero uno due settimane), ma quando fa “tell me something...” è fantastica.


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Damien Rice

(1973, Dublino, Irlanda)

Rice è il più bravo dei cantautori di questo millennio. Il suo primo disco ebbe un successo formidabile in Irlanda, e allora decisero di rilanciarlo in Inghilterra e alla fine andò forte anche lì. Allora decisero di rilanciarlo in tutto il mondo, e a un anno di distanza conquistò il mondo, grazie anche a un intenso passaparola su internet. Le sue canzoni migliori sono le ballate sentimentali in cui ci si commuove: per non passare da sdolcinato, ogni tanto si mette a schitarrare e urlare forsennatamente, ma non gli viene quasi mai altrettanto bene.

The blower’s daughter
(O, 2002)
La più bella canzone d’amore del millennio, con buone probabilità di restarlo a lungo. Ebbe successivi rilanci man mano che le canzoni venivano riprese e riutilizzate, tra l’altro in Closer e poi in Il caimano di Nanni Moretti. L’incipit “And so it is...” ha la forza di un grande attacco letterario, ed è di quelli che restano in testa non per tutta la giornata, ma per tutta la stagione almeno. E poi ha dato nuova vita al verso “non riesco a staccarsi gli occhi di dosso”, fino ad allora celebre in versione riempipista nella canzone di Frankie Valli (“I love you, baby!”).

Amie
(O, 2002)
“Niente di insolito, niente di strano, vicini al nulla. Il solito scenario, la solita pioggia, e neanche un botto”. Canzone stupenda di speranze e piedi per terra, e archi che infiammano tutto quanto, e si piange.

Delicate
(O, 2002)
Questo invece è uno dei casi in cui a una sublime dolcezza (la rima allelujah/nothin’-to-ya è miele in bocca) Rice fa succedere alla perfezione un momento aggressivo, e tutto viene benissimo: perché non esagera. Complice il violoncello.

Cannonball
(O, 2002)
There’s still a little bit of your song in my ear
There’s still a little bit of your words I long to hear
You step a little closer to me
So close that I can’t see what’s going on
Al momento di scegliere una canzone da promuovere in radio – non se ne poteva fare a meno, il successo montava – ci furono degli imbarazzi: il disco era bellissimo ma mancava la canzonetta leggera. Alla fine scelsero questa, aggiungendole un po’ di ritmo e percussioni alla bisogna, e accorciandola di due minuti.

Woman like a man
(B-sides, 2004)
L’unico grande pezzo rock di Rice, altrimenti formidabile solo intorno alle ballate. Qui c’è un giro tostissimo, testi torbidi e cattiveria il giusto. Uscì come lato B, ma lui ci ha aperto molti concerti, per far capire che non era lì per far commuovere le ragazzine.

AA. Creep
(Glastonbuny jukebox, 2005)
È la canzone dei Radiohead, che era in effetti fatta a forma di canzone di Damien Rice, con l’alternanza di dolcezza sofferente e aggressività urlata: e lui l’ha fatta dal vivo nelle sue prime tournée, legandola a “The blower’s daughter”, in un’escalation di baccano rock. Uscì in un cd di una rivista inglese, ma si trova in rete, registrata in giro.

Elephant
(9, 2006)
Se vuoi farla “sentire”, una canzone; se vuoi far passare come stai vivendo quelle cose che dici; come le “soffri”; beh, il rischio “rose rosse per te” (che non è niente male, ma un po’ sopra le righe) è in agguato: finisce che distorci le vocali che pari Piero Pelù, o che ti fai ridere dietro. Damien Rice no. In queste cose è bravissimo. È il più bravo del mondo a far passare tormento e vibrazioni come se fossero sincere, ogni volta. C’è un’emozione dentro ogni sillaba, e un sospiro non è mai fuori luogo. E poi, in “Elephant”, c’è la costruzione perfetta del modello di strofe lento-rock-lento.

Grey room
(9, 2006)
Altro lento-rock-lento. Lui è lì, spappolato un'altra volta in questa stanza, ad aspettare che il telefono suoni, come la ragazza di “Buona domenica”. L’amore è così, che poi viviamo ogni volta le stesse cose banali di sempre e di tutti.

Accidental babies
(9, 2006)
Qui, per esempio, siamo sulle solite dannate domande che ci facciamo quando te ne sei andata, e sappiamo che c’è un altro: non ci chiediamo chi ti apre lo sportello perché già lo sappiamo. Ci chiediamo “pensi mai a me? lui ti consola?”, e cose peggiori. Alla maggior parte di noi, grazie al cielo, manca il pianoforte: e così a un certo punto accendiamo la tv e ci passa.

Coconut skins
(9, 2006)
Time is contagious
Everybody’s getting old


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AA. Creep | Damien Rice

Roxy Music

(1971-1983, Newcastle, Inghilterra, Regno Unito)

Senza offesa per nessuno, si può dire che i Roxy Music siano stati il trait d’union tra i Velvet Underground e i Duran Duran. Con l’ambizione avanguardistica e intellettuale dei primi e la vanità estetica dei secondi, e la contiguità con modelle ed élites creative di entrambi. Identificati nettamente con la faccia, il vocione e la paraculaggine di Bryan Ferry, furono ispirazione per la new wave degli anni Ottanta e sperimentatori di stranezze melodiche ed enfasi teatrali. Fecero grande musica e canzoni stupende.

Beauty queen
(For your pleasure, 1973)
Qui c’era ancora Brian Eno, che poi avrebbe lasciato il gruppo in cerca di maggiori sperimentazioni e avrebbe trovato pane per i suoi denti. La regina del titolo è una modella e si chiamava Valerie (dovevano ancora arrivare Jerry Hall e Amanda Lear, nella vita di Ferry e sulle copertine dei Roxy Music).

A song for Europe
(Stranded, 1973)
Esibizione da palcoscenico di struggente decadenza, un circo gigionesco insuperabile. Lui è lì, seduto a questo caffè deserto, che pensa a lei, ma pare di vederlo in vestaglia attaccato alle tende della camera d’albergo, a Parigi o a Venezia. Nella canzone ci sono gondole, francese, latino, e rime sorrow-tomorrow che avrebbero fatto impallidire Gazebo. Applausi, sipario. Applausi.

In your mind
(In your mind, 1977)
Fu il primo disco solista di canzoni sue di Bryan Ferry . Più roccheggiante in senso canonico, come testimoniano i tre monumentali colpi di batteria al cambio di strofa della title-track.

Dance away
(Manifesto, 1979)
Malgrado la storia sia insieme incongrua e abusata – lui la lascia a casa, le dà un bacio e la sera dopo lei sta “hand in hand” con un altro – a un certo punto, dopo essere inciampato persino in un “my whole world has changed”, Bryan Ferry si inventa questa: “you’re dressed to kill and guess who’s dying?”. Ma basta una notte sulla pista da ballo, e passa tutto.

Same old scene
(Flesh + blood, 1980)
Io lo vedo, Simon LeBon, da solo nella sua cameretta che riascolta “Same old scene” mille volte fino a conoscerne ogni suono, e poi si guarda allo specchio dentro l’anta dell’armadio, lo specchio a cui sono incollate con lo scotch le foto di Bryan Ferry, e si dice: “io voglio esser come te”.

Over you
(Flesh + blood, 1980)
Qui erano rimasti in tre, ma Phil Manzanera e la sua chitarra da soli bastano a rendere memorabile questa canzone. Poi c’è Bryan Ferry, naturalmente. L’intermezzo strumentale con la pianola tornerà buono a una dozzina di band inglesi dieci anni dopo.

Oh yeah
(Flesh + blood, 1980)
Stanno suonando la nostra canzone: “there’s a band playing on the radio, with a rhythm of rhyming guitars. They’re playing to you on the radio, and so came to be our song”. Una specie di grato inno all’autoradio e a tutte le emozioni che ci ha dato (escludendo quelle della mattina in cui ce l’avevano rubata).

Avalon
(Avalon, 1982)
Nella storia del rock l’elemento fondamentale sono le canzoni, e va bene. Ma ogni tanto un piccolo sottoelemento – i suoni – ottiene una sua propria e immortale identità. Quei due tocchi e mezzo di chitarra all’inizio di “Avalon” non sono nemmeno ancora una melodia, non sono niente: sono due suoni (e mezzo). Indimenticabili.

More than this
(Avalon, 1982)
Avalon fu l’ultimo disco dei Roxy Music, poi ognun per sé (Bryan Ferry già aveva cominciato a farsi i fatti suoi con buoni risultati). Fu anche il loro lascito agli anni Ottanta e al decennio che sarebbe stato segnato dai loro allievi. Se ne andarono alla grande, con un disco affollato di buone canzoni in ogni ordine di posti. Questa è la più nota, e permise loro di sfondare finalmente anche in America. Dove i 10,000 Maniacs se la presero per una bella cover.

Take a chance with me
(Avalon, 1982)
Questo dice che “people say I’m just a fool”. John Lennon in “Watching the wheels” spiegava che “people say I’m crazy”. Serpeggiava in quegli anni una certa inclinazione alla paranoia, tra le grandi rockstar.

Slave to love
(Boys and girls, 1985)
Sciolti i Roxy Music, Bryan Ferry riprese da dove aveva lasciato: cantando sempre con quell’aria da “spostati ragazzino, lasciami lavorare” (si veda in questo senso soprattutto l’attacco di “True to life” in Avalon), come se Elvis fosse vivo e gli piacessero le modelle. Si fece aiutare da Nile Rodgers, da Mark Knopfler e da David Gilmour, e spopolò con questa ballatona.

Windswept
(Boys and girls, 1985)
Fu il terzo singolo da Boys and girls, e decisamente più anomalo e originale dei primi due. Orientaleggiante, lounge ante litteram (non fosse per l’assolo di chitarra), ipnotica. Andò peggio in classifica, ma non se lo meritava.

AA. Feel the need
(Will you love me tomorrow, 1993)
Questa stava nel lato B di un EP il cui pezzo principale era “Will you love me tomorrow” (cover di Carole King), proveniente da Taxi. L’originale (“Feel the need in me”) era stata incisa dai Detroit Emeralds all’inizio degli anni Settanta, ma aveva conosciuto una riscoperta disco per conto della meteora Leif Garrett. Ferry le restituisce dignità a modo suo.

Is your love strong enough?
(Threesome, 1994)
Malgrado il ritornello sia irritante e fatto con la mano sinistra, l’attacco e l’arrangiamento, compresa l’enfatica conclusione a salire, salvano la canzone. Che fu incisa per i titoli di Legend, flop cinematografico di Ridley Scott con Tom Cruise.

It’s all over now, baby blue
(Frantic , 2002)
I dischi di cover e standards sono spesso l’inutile pensionato dove vanno a finire le carriere di grandi rockstar, ma con Bryan Ferry è diverso. Lui aveva già cominciato a raccogliere canzoni altrui quando era all’apice della carriera. Il suo disco del 1973, These foolish things, si apriva con “A hard rain’s gonna fall” di Bob Dylan. Quasi trent’anni dopo, complice la bellezza della canzone stessa, indovina anche la cover di “It’s all over now, baby blue”, ancora di Dylan. Spesso Ferry non sa tenere a bada la sua gigioneria e non tutte le altre sue versioni sono all’altezza, ma questa ha un gran ritmo.

Positively 4th street
(Dylanesque, 2007)
Dopo averci tanto girato intorno, nel 2007 Ferry fa un disco di sole cover di Dylan, e gli esce niente male (soprattutto con questa, con “Simple twist of fate” e con “Make you feel my love”). “Positively” viene bene ogni volta, è vero, ma lui la rende notturna e languida senza sbracare, e complimenti.


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AA. Feel the need - Bryan Ferry

Joni Mitchell

(1943, Alberta, Canada)

Gran signora canadese, amata e ammirata da tutti i cantautori nordamericani, e capace ancora oggi di fare grandi cose con una voce tutta sua. Ha lavorato tantissimo con la chitarra, con percussioni e sonorità pellirosse, con il jazz. In Europa non ha mai svoltato, perché i critici scrivono mirabilie di Joni Mitchell ma poi pompano gli Strokes (gli chi? Appunto).

Both sides now
(Clouds, 1969)
Avrei fatto molte cose, ma si sono messe in mezzo le nuvole.
C’è quella striscia dei Peanuts, dove giocano a baseball e Lucy manca uno spiovente facilissimo. Charlie Brown perde la pazienza e lei risponde «avevo il sole negli occhi». E lui: «ma se è nuvoloso!». «Avevo le nuvole negli occhi».

Chelsea morning
(Clouds, 1969)
Non è Chelsea a Londra, ma l’hotel Chelsea di New York. Lei l’aveva scritta molto prima di metterla in un suo disco, ed era diventata famosa per la versione del 1969 di Judy Collins. Che è la ragione per cui la figlia di Bill e Hillary Clinton si chiama Chelsea. Anche Neil Diamond ne ha fatto una bella cover.

Big yellow taxi
(Ladies of the canyon, 1970)
La più famosa canzone di Joni Mitchell per chi non conosce Joni Mitchell. Grazie al campionamento di Janet Jackson nella sua notevole “Got ‘til it’s gone” e alla cover dei Counting+Crows. Il taxi lo vide dalla finestra di un albergo alle Hawaii, e capì che “va sempre a finire che non sai quello che possiedi fino a che non lo hai perso: hanno asfaltato il paradiso e ci hanno messo un parcheggio”.

Woodstock
(Ladies of the canyon, 1970)
Secondo alcuni Joni Mitchell doveva suonare a Woodstock, quella volta là, ma fece tardi per via del traffico. Secondo altri aveva un impegno televisivo. Comunque ci rimase male assai. Vide il concerto in televisione e scrisse la canzone, che fu cantata anche da Crosby, Stills, Nash & Young in Déja vu. “Quando arrivammo a Woodstock c’era già mezzo milione di persone, ed era tutto canzoni e gioia. E sognai un cielo di bombardieri che sganciavano farfalle sulla nostra nazione”.

All I want
(Blue, 1971)
Il suono con cui inizia Blue, che passa come il più riuscito disco di Joni Mitchell, è un dulcimer degli Appalachi (già, esistono vari tipi di dulcimer). Il dulcimer è uno strumento a corde che si pizzicano o si percuotono, lontano parente di una chitarra di cui ha la forma assai più allungata. In “All I want” – dove la chitarra vera la suona James Taylor – lei vuole parecchie cose da un nuovo amore, tra cui fargli uno shampoo.

My old man
(Blue, 1971)
Questo invece è un pianoforte. Lui è via e quando lui è via il letto è troppo grande (e questa l’abbiamo sentita spesso: poi verranno i Police di “The bed’s too big without you” o la variante dei Cugini di campagna del “letto come lo hai lasciato tu” che però è pudicamente indipendente “nella stanza tua”). L’invenzione figurativa è invece “la padella troppo grande”, la mattina quando lei prepara la colazione. Il lui di cui si parla qui è Graham Nash (“he’s a singer in the park”), con cui aveva rotto poco prima.

A case of you
(Blue, 1971)
Si dice che lui fosse Leonard Cohen, e la relazione doveva essere piuttosto tormentata, a sentire lei qui. Bella, lenta, dolcissima. Trent’anni dopo la ricantò in Both sides now. Ne fece anche una bella cover Prince, tra gli altri.

Help me
(Court and spark, 1974)
Quando dicono “folk-jazz” vogliono solo dire che c’è un arrangiamento un po’ jazz ma anche delle chitarre. Come in “Help me”, se riuscite a trascurare la voce di lei, e a farci caso.

Refuge of the roads
(Hejira, 1976)
Molte delle canzoni di Joni Mitchell sono roba di viaggi, da on-the-road. La stessa “All I want” che apriva Blue era una esposizione del viaggio come massima forma di libertà. Hejira è molto su questo, sugli incontri che si fanno e sui pensieri che si hanno. “Refuge of the roads” si conclude su una foto della terra vista dalla luna, appesa dentro a un distributore di benzina, dove “non si distingue una città, né una foresta o un’autostrada, e men che mai me stessa, quaggiù”.

Chinese cafè
(Wild things run fast, 1982)
“Chinese cafè” era la prima canzone del disco di Joni Mitchell sul tempo che era passato.
Caught in the middle, Carol
we’re middle class, we’re middle aged
We were wild in the old days,
birth of rock ‘n’ roll days:
now your kids are coming up straight
and my child’s a stranger
I bore her, but I could not raise her
Nothing lasts for long
“Sembriamo le nostre madri” dice ancora, prima di tirare fuori dal cappello una fantastica citazione di “Unchained melody” dei Righteous Brothers.

Cherokee Louise
(Night ride home, 1991)
Louise era una compagna di scuola: quando la cercano, Joni Mitchell sa dove è andata. A nascondersi sotto il Broadway Tunnel dove può tuffarsi nella polvere e dimenticare la cosa terribile che le era capitata a casa:
She runs home to her foster dad
He opens up a zipper
And he yanks her to her knees

Bad dreams
(Shine, 2007)
“Bad dreams are good, in the great plan”, aveva detto un suo nipotino di tre anni. Lei ne aveva sessantaquattro quando fece ancora uno stupendo disco di Joni Mitchell.


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236 giorni a Natale

The Christmas Song



Celebre canzone natalizia statunitense, conosciuta anche come "Chestnuts Roasting on an Open Fire", scritta e cantata da Mel Tormé nel 1944. Moltissime le cover, tra cui la più famosa è quella di Nat King Cole. [wiki]



America

(1967, Londra, Inghilterra, Regno Unito)

All’università a Londra erano in tre, figli di militari americani di stanza in Inghilterra: il primo disco e la canzone più famosa li incisero lì, poi se ne tornarono al paesello, dove spopolarono ancora un po’. Quando uno mollò e si convertì al cristianesimo e alla musica religiosa, gli altri infilarono ancora qualche successo con dischi piuttosto noiosi. Erano la faccia melensa del rock western degli anni Settanta, ma anche la melensaggine conosce bravure.

A horse with no name
(America, 1971)
Uno dei classici dell’epoca, anche grazie a un equivoco: molti pensarono fosse una canzone di Neil Young. La band ha sempre negato che il cavallo e il deserto di cui si parla fossero una metafora dell’uso di stupefacenti, ma non è bastato a fugare i sospetti: per scrivere cose come “the heat was hot” – ovvero “il caldo era caldo” – qualcosa bisogna aver preso. Anche l’accavallarsi di negazioni nel verso “’cause there ain’t no one for to give you no pain” è ben strano: “colloquiale”, lo definì uno degli autori. Magari poi parla del deserto, e di un cavallo, va’ a sapere. Magari.

I need you
(America, 1971)
Sono testi che rilassano, finalmente: niente cavalli misteriosi, niente allusioni dietro l’angolo, solo metafore da asilo infantile. Un testo degno del miglior Cole Porter: “Ho bisogno di te, come il fiore della pioggia, come l’inverno della primavera” eccetera.

Sister golden hair
(America in concert, 1973)
Quando eravamo giovani e ci sembrava contassero solo i bassi, c’era un punto nella versione live in cui alzavamo i bassi a palla per scatenare il colpo di batteria.

Daisy Jane
(America in concert, 1973)
Daisy mi ama, io sono contento, il cielo è sereno, ma anche sotto le stelle bla bla bla. Però quando si apre il ritornello è bella, e poi si potrà anche essere un po’ pirla sentimentali, ogni tanto, l’estate, la sera, no?

Another try
(Holiday, 1974)
Hanno licenziato papà, e comunque i soldi se li beveva tutti prima di arrivare a casa. Però, mamma, a cosa serve una famiglia? Chiamalo, digli di tornare a casa. Diamogli un’altra possibilità. Mah.

Survival
(Alibi, 1980)
Entrarono negli anni Ottanta con un disco discreto, Alibi, prima di smettere definitivamente di indovinarne una. Questo era il singolo: ancora molto vento, pioggia, luna, mare e via dicendo. Manca il cavallo.


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The Alarm

(1981-1992, Rhyl, Galles, Regno Unito)

Erano quelli con i capelli dritti in testa e il mito estetico e lirico delle guerre settecentesche. Gallesi, andarono in tour con gli U2 e cercarono di assomigliargli, attingendo anche ai modi dei Clash. Non ci riuscirono granché, ma con uno stampino di chitarre e canti di battaglia produssero alcune belle canzoni gridacchiate.

The stand
(The Alarm, 1983)
Il primo successo andò meglio in America che in Gran Bretagna, e diede un’idea di quello che avevano in mente. Era ispirato al romanzo omonimo di Stephen King, da noi tradotto come L’ombra dello scorpione.

Sixty-eight guns
(Declaration, 1984)
“Sixty-eight guns è il grido di bat- taglia.” Quando, nel 1983, entrò in classifica in Inghilterra, la band era in tour in America e ritornò precipitosamente per la possibilità di suonare a Top of the pops. Poi la usarono per uno spot americano della Heineken.

Where were you hiding when the storm broke?
(Declaration, 1984)
“Vendersi è un peccato mortale”: la scrissero a cavallo del successo per vietarsi di tradire la propria purezza e di sottrarsi alla musica vera, secondo loro.
Dove ti sei andato a nascondere quando è scoppiata la tempesta?

Tell me
(Declaration, 1984)
Anthems, gli Alarm erano specializzati in anthems. Canti, cori, refrain proclamati al mondo, grida di battaglia con cui guidare le truppe. Ma a differenza della tradizione degli anthems hard rock – spesso meri slogan – gli Alarm sapevano inventare una melodia compiuta con cui sostenerli. “Take a look at the punks”, è ancora più efficace perché emerge – esplode – da una strofa sommessa e quieta.

The deceiver
(Declaration, 1984)
Appunto, non vi viene voglia di guidare un corteo? “Highway to hell” degli AC/DC è un anthem statico, perfetto per un comizio dal balcone, per un’adunata. Ma per andare a conquistare il mondo, per il moto a luogo, ci vuole questo. (Ed ecco di cosa parla secondo il leader Mike Peters: «ci sono sempre stati dei pazzi che pensavano di conquistare il mondo».)

Blaze of glory
(Declaration, 1984)
Buona per chiudere il concerto, in un’esplosione di gloria.

Rescue me
(Eye of the hurricane, 1987)
Qui eravamo già in una fase calante, e con una certa premonizione passavano dai canti di battaglia alla richiesta di soccorso. Mike Peters cantò “Rescue me” in uno straordinario concerto alla scuola elementare Italo Calvino di Reggio Emilia, organizzato nel 2002 dalle maestre. Bambini in visibilio.


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Aerosmith

(1970, Boston, Massachusetts, USA)

“La più grande banda di strafatti che abbia mai visto” disse Jerry “Pulpito” Garcia dei Grateful Dead. Tanto strafatti che dopo dieci anni di attività si separarono, all’inizio degli anni Ottanta. Dopo qualche tempo il manager di uno di loro li convinse a tornare assieme e a diventare la rockband dell’era MTV: gli Stones se non ci fossero già stati gli Stones. Bocca del leader compresa. Steven Tyler (già Steven Tallarico e già padre di Liv Tyler) diventò così il sex symbol di ragazze che potevano essere sue figlie e ci marciò parecchio. E gli Aerosmith infilarono una serie di singoli da classifica che ancora non ha fine.

Dream on
(Aerosmith, 1973)

Nel 2004 la rivista Rolling Stone ha classificato questo brano al #172 della classifica 500 Greatest Songs of All Time.

Walk this way
(Toys in the attic, 1975)
“Walk this way” lo diceva Marty Feldman in Frankenstein Jr., scatenando una gag che giocava sull’equivoco tra way-strada e way-modo. Il titolo lo presero da lì, ma il testo racconta dell’introduzione al sesso (e che sesso!) del giovane protagonista.
Undici anni dopo divenne un successo ancora maggiore nella versione condivisa con i rapper Run DMC. Stando alla leggenda, Tyler si dimenticò i testi sul taxi che lo aveva portato alla sala di incisione, e li riscrisse su due piedi.

Nel 2004 la rivista Rolling Stone ha classificato questo brano al #336 della classifica 500 Greatest Songs of All Time.

Sweet emotion
(Toys in the attic, 1975)

Nel 2004 la rivista Rolling Stone ha classificato questo brano al #408 della classifica 500 Greatest Songs of All Time.

Rag doll
(Permanent vacation, 1987)
Uno di quei motivetti che sembra siano sempre esistiti. Un ritmo fatto apposta per definire l’espressione “swinging”. Fantastico l’ingresso dei fiati, che non sono proprio roba loro, e la chiusura vocale jazz.

Love in an elevator
(Pump, 1989)
Allora: forse voi vorreste essere stati Steven Tyler. Ma io che sono umile avrei voluto essere un turista ciondolante nella hall dell’albergo nel momento in cui si aprirono le porte dell’ascensore e apparve Tyler insieme a due ragazze, tutti piuttosto spogliati e in atteggiamento, uhm, come dire... .
No, non credo sia vero: ma c’è chi sostiene che la canzone sia nata così.

What it takes
(Pump, 1989)
Lui la recita da campione, gigioneggiando ogni sillaba. Sarebbe fantastica solo per “Girl, before i met you I was F-I-N-E fine”. E poi c’è quell’infinita e rotatoria cavalleria di parole nel verso: “Without-thinking-you-lost-everything-that-was-good in-your-life-to-the-toss-of-the-diiiiiiiiiiiice...”.

Janie’s got a gun
(Pump, 1989)
Mica una canzone qualsiasi, a cominciare dall’inizio western. La storia narra che il padre di Janie le ha fatto delle brutte cose, e lei si è stufata e gli ha piantato una pallottola in testa.
Ed è raccontata con freddezza e rabbia inquietanti e antiretoriche. Una delle migliori cose degli Aerosmith di sempre.
Da una gag del popolare comico statunitense Jon Stewart, nel 2006 nacque una parodia dedicata all’incidente durante il quale il vicepresidente americano sparò a un amico scambiandolo per una quaglia: “Cheney’s got a gun”.

Livin’ on the edge
(Get a grip, 1993)
È che viviamo in un casino, e nessuno ci capisce più niente: c’è qualcosa di sbagliato, ma va’ a sapere cosa. E non ci puoi fare niente. Viviamo sull’orlo del precipizio. Everybody.

Crazy
(Get a grip, 1993)
Grande l’introduzione chiacchierata. Ballatona, consegnata all’immaginazione dei giovanotti da un video dove due ragazze marinano la scuola, se la battono su una cabrio, si spogliano, ne combinano parecchie, si tuffano in uno stagno e si capisce che si piacciono assai. E sono Alicia Silverstone e Liv Tyler, figlia di Steven, prima di rovinarsi in un film di Bertolucci.

Amazing
(Get a grip, 1993)
Copia di “Crazy”, dallo stesso disco, altrettanto successone mondiale e video straprogrammato (ancora con Alicia Silverstone, che è anche in quello di “Cryin’”). Il casino che fa lui sul finale, urlando, balbettando, trascinando le parole, vale il prezzo del biglietto.

Just feel better
(All that I am, Santana, 2005)
Nel 2005 Carlos Santana pubblica un disco di duetti, in cui può associare ai suoi rodati virtuosismi le efficaci voci di questo o quel divo. Il primo singolo è un rocchettone con Steven Tyler, che fa rimbalzare e rotolare le parole in giro per la canzone fermandosi solo per fare un po’ di posto qua e là alla chitarra dell’ospite.


Brani citati
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One Hit Wonders - Prima degli anni Novanta

“One Hit Wonder”, letteralmente “un colpo fantastico”, è il termine universalmente conosciuto con il quale vengono indicate le cosiddette “meteore musicali”, ovvero quelle canzoni, o quegli artisti, che hanno brillato una sola stagione e dei quali poi si sono perse le tracce.

Prima degli anni Novanta


Venus | Shoking Blue
(At home, 1969)
Nel 1969, gli Shoking Blue, quartetto di rock psichedelico olandese ottenne un successo planetario con un singolo divenuto famosissimo: “Venus”. Chi non ha mai canticchiato: “She’s got it Yeah, baby, she’s got it, I’m your Venus, I’m your fire, At your desire?”.

You to me are everything | The Real Thing
(Real Thing, 1976)
Hit del gruppo soul britannico The Real Thing. Marina Rei nel 1997 ne face una versione in italiano, con il titolo "Primavera".

My Sharona | The Knack
(Get the Knack, 1979)
Clamoroso tormentone estivo in tutto il mondo, caratterizzato da un riff chitarristico che ha fatto storia. Una curiosità: la Sharona della canzone esiste davvero. È la ragazza che appare sulla copertina del singolo, la quale, adesso, fa l’agente immobiliare.

Video killed the radio stars | The Buggles
(The age of plastic, 1980)
Grandissimo successo di fine anni ’70 ad opera di un gruppo inglese che annoverava fra i suoi componenti due musicisti, Trevor Horn (voce, chitarra) e Geoffrey Downes (tastiere) che di lì a poco sarebbero entrati a far parte del ben più famoso gruppo progressive degli Yes. “Video killed the radio stars” può essere considerata a tutti gli effetti la canzone spartiacque fra la musica “dance” degli anni ’70 e quella – più spiccatamente elettronica – degli anni ’80.

AA. Giddy up a gogo | Ad Visser ft Daniel Sahuleka
(1982)
Musicista, ma soprattutto scrittore e vj, l’olandese Ad Visser pescò il jolly nel 1982 con questa canzone incisa con la voce del cantante indonesiano Daniel Sahuleka.

Maniac | Michael Sembello
(Flashdance, OST, 1983)
Michael Sembello, pur avendo nella sua carriera collaborato con artisti del calibro di Stevie Wonder, Michael Jackson, Donna Summer etc. arrivò alla notorietà nel 1983 quando la sua canzone “Maniac” entrò a far parte della colonna sonora del film Flashdance.

Captain of her heart | Double
(Blue, 1986)
Anche i Double erano due, ma svizzeri. La canzonetta per cui sono famosi fa molto frivolezza anni Ottanta ma era davvero bella: pop jazzato con gran pianoforte e sassofono.

BB. À caus’ des garçons | À caus’ des garçons
(1987)
Un tiro, un centro. Musicata da Alain Chamfort, uno dei nomi di punta del pop francese degli ultimi 40 anni, è stata più volte coverizzata, pur restando un successo simbolo di quegli anni, effimero quanto piacevolissimo.

C’est la ouate | Caroline Loeb
(C’est la ouate, 1987)
Umoristico inno alla pigrizia che nel 1986 schizza in testa alle classifiche europee.

Playlist


Brani citati


Altri brani, non su Spotify

AA. Giddy up a gogo | Ad Visser ft Daniel Sahuleka


BB. À caus’ des garçons | À caus’ des garçons

One Hit Wonders - Gli anni novanta

“One Hit Wonder”, letteralmente “un colpo fantastico”, è il termine universalmente conosciuto con il quale vengono indicate le cosiddette “meteore musicali”, ovvero quelle canzoni, o quegli artisti, che hanno brillato una sola stagione e dei quali poi si sono perse le tracce.

Gli anni Novanta


The Power | Snap!
(World powers 1990)
"I've got the power - tun tun tututun tun". Eurodance a manetta prodotta tra l'Italia e la Germania. Loro sono in effetti una Two Hits Wonder, perché hanno bissato con "Rhythm is a dancer".

I’ve been thinking about you | Londonbeat
(1990)
Come vivere di rendita con un solo brano. Nel 1990 questa canzone che arriva dopo due anni dall’avvio della loro carriera, proietta la band britannica in testa alle classifiche di mezzo mondo. Ma incredibilmente, non solo non trascina l’album, ma resterà l’unica hit anche in patria.

Two princes | Spin Doctors
(Pocket full of kryptonite, 1991)
Indimenticabile pezzo funk-rock per una band che ha lasciato poco altro. Alcuni ricorderanno anche il cappello indossato dal cantante Chris Barron nel video trasmesso all'infinito negli anni ’90, molto simile al copricapo che aveva John Frusciante in "Under the bridge".

All that she wants | Ace Of Base
(Happy nation, 1992)
Praticamente gli ABBA perversi. Sono sempre in attività ma la casa se la sono comprata con questo pezzo qui.

The rhythm of the night | Corona
(Happy nation, 1992)
Pezzone scritto dal fratello di Ivana Spagna e prodotto da Checco Bontempi. La modella Olga de Souza prestava solo la faccia, in realtà cantava Jenny B.

Would I lie to you | Charles & Eddie
(Duophonic, 1992)
Il nero e l'ispanico, smielati fino al diabete. Purtroppo Charles è morto nel 2001.

I'm too sexy | Right Said Fred
(Up, 1992)
Quando apparirono in tv, culturisti, machi e equivoci, ce ne innamorammo subito!

Runaway train | Soul Asylum
(Grave dancers union, 1992)
Un’altra band punk rock esplosa negli anni ’90 con una ballata, "Runaway train", trascinata dal videoclip in stile Chi l’ha visto? che pare abbia contribuito a far ritrovare parecchi bambini scomparsi. Sex symbol dell’epoca, il cantante Dave Pirner è diventato famoso anche grazie a una delle sue fidanzate, Winona Ryder.

What’s up? | 4 Non Blondes
(Bigger, better, faster, more!, 1992)
“And I say hey, yeah yeah…”. Un unico album e un unico, enorme successo. Ed è un’altra ballata uggiosa che nella prima metà degli anni ’90 ha ipnotizzato chiunque con la voce della cantante Linda Perry.

Paris Latino | Bandolero
(1993)
Precursori degli artisti francesi che cantano (anche) in spagnolo, i Bandolero entrano all’improvviso, da esordienti, nelle classifiche di mezza Europa del 1983. Il brano è la hit dell’estate. Poi scompaiono dai radar.

What is love | Haddaway
(1993)
Probabilmente la persona più famosa della storia di Trinidad e Tobago e di certo l'unico che sa cos'è l'amore.

'74-'75 | The Connells
(Ring, 1993)
Band americana di pop rock melodico e struggente, hanno raggiunto il successo con questo pezzo, nonostante continuino a sfornare album come se non ci fosse domani.

Informer | Snow
(12 inches of Snow, 1993)
Snow ha realizzato il singolo reggae più venduto negli Stato Uniti, nonostante sia canadese e di giamaicano non abbia proprio niente. Poi è sparito nel nulla.

“Mmm mmm mmm mmm” | Crash Test Dummies
(God shuffled his feet, 1993)
Le strofe cantate col tono basso dal cantante Brad Roberts e quella singola lettera, un verso con le labbra chiuse, trasformato in memorabile, bizzarro ritornello. Ogni strofa racconta l’isolamento e la sofferenza di un bambino, traumi infantili fatti hit.

Blue (da ba dee) | Eiffel 65
(1995)
Maury, Jeffrey Jey e Gabry Ponte, eurodance ai massimi livelli, famosi in tutto il mondo, gettonatissimi all'autoscontro.

Eins zwei polizei | Mo-Do
(Was ist das, 1995)
Nome d'arte di Fabio Frittelli, modello italiano nato da madre austriaca e purtroppo morto suicida nel 2013.

Lemon tree | Fool’s Garden
(Dish of the day, 1995)
Il supertormentone dell’estate 1995 è questa filastrocca composta dal tedesco Peter Freudenthaler e dai suoi sodali, ovvero i Fool’s Garden. Che hanno anche pubblicato anche un Greatest Hits. Ci sarà solo questo pezzo ripetuto 12 volte?.

I'll be there for you | The Rembrandts
(L.P., 1995)
Si può passare alla storia per un unico pezzo? Se è la sigla di Friends. Veterani del power pop, i Rembrandts avevano già pubblicato un paio di album prima di consegnare alla storia "I'll be there for you", scritta insieme agli stessi produttori della serie tv. Colonna sonora perfetta per i tuffi sul divano.

One of us | Joan Osborne
(Relish, 1995)
Il pezzo era la sigla del telefilm Joan of Arcadia e in quegli anni è stato cantato da tutte le aspiranti cantanti del mondo.

Strange world | Ké
(1996)
Nemmeno Wikipedia ci sa dire che fine abbia fatto questo modello e cantante. Sparito nel nulla.

Thubthumping | Chumbawamba
(Tubthumper, 1997)
I Chumbawamba, prima e dopo questo brano, loro unico vero successo hanno una carriera lunga così, che continua ancora nei circuiti alternativi, anche per via della loro dichiarata simpatia politica anarchica. L’unica vera incursione nel pop rock commerciale è appunto questo singoloche gira tutto intorno al refrain: “I get knocked down, but I get up again. You’re never going to keep me down“, che per loro è una sorta di manifesto.

Barbie girl | Aqua
(Aquarium, 1997)
Si narra che gli Aqua si stiano per riunire. Ma quali pezzi suoneranno, oltre a questo?

MMMbop | Hanson
(Middle of nowhere, 1997)
Che dire? Dopo 23 anni, sono costretti a suonare ancora "MMMbop". Beati loro.

Mr. Gorgeous (and Miss Curvaceous) | Smoke City
(Flying away, 1997)
Il ritornello da canticchiare fa la sua parte, ma a decretare il successo di questo brano acid jazz è senz’altro il video, dove spadroneggia la vocalist brasiliana di questo gruppo inglese, Nina Miranda.

Kiss the rain | Billie Myers
(Growing, pain, 1997)
Billie Myers è una cantante britannica dalle origini giamaicane e dal timbro caldissimo e carico di sfumature; nel 1997 debutta sulle scene musicali con questo brano dai profondi influssi soft rock, oggi diventato un classico.

Truly madly deeply | Savage Garden
(Savage Garden, 1997)
Duo australiano diventato famoso in tutto il mondo con questo singolone del 1997. Si sono sciolti nel 2001.

Walkin' on the sun | Smash Mouth
(Push Yu Mang, 1997)
Suonano dal 1994 e qualche singolo l'hanno piazzato, ma questo pezzo è il motivo per andare a vedere un loro concerto.

Brimful of Asha | Cornershop
(1997)
In pieno delirio brit pop, un inno alle canzoni del cinema bollywoodiano e alla musica a 45 giri, dalle sorprendenti coreografie indiane ai vinili di Marc Bolan e della Trojan Records. I Cornershop erano già al loro terzo album quando Norman Cook/Fatboy Slim si è innamorato di "Brimful of Asha", remixando il pezzo e trasformandolo in un successo epocale. Impossibile stare fermi e non cantarla.

Bitch | Meredith Brooks
(Blurring the edges, 1997)
Con questo singolo si aggiudicò anche una nomination ai Grammy. Incredibilmente suona ancora.

Kiss me | Sixpence None The Richer
(Sixpence None The Richer, 1997)
All'inizio erano una band cristiana, poi hanno deciso di passare al pop. Le nostre orecchie ringraziano.

Save tonight | Eagle Eye Cherry
(Desireless, 1998)
Il fratellastro di Neneh Cherry è un musicista e un attore, ma della sua carriera ci ricordiamo solo questo singolo.

Crush | Jennifer Paige
(1998)
Bella come il sole, questa cantante americana suona ancora ma non è mai riuscita a bissare il successo del suo singolo di punta.

Big big world | Emilia
(Big big world, 1998)
Emilia Mitiku è una cantante svedese. Dopo il suo singolo di maggior successo, è tornata anche a cantare in svedese.

Unforgivable sinner | Lene Marlin
(Playing my game, 1998)
Lene in realtà di canzoni famose ne ha fatte, ma dopo i primi due album si è volatilizzata. Resta sempre una delle nostre cantanti preferite degli anni '90.

Torn | Natalie Imbruglia
(Left of the middle, 1998)
“Torn” era già stata incisa nel 1993 (in danese, con il titolo "Brændt") dalla cantante Lis Sørensen, poi nel 1995 dagli autori, il gruppo californiano Ednaswap e ancora nel 1996 dalla cantante americana-norvegese Trine Rein. Ma fu con la cantante di origini australiane, Natalie Imbruglia, che arrivò al successo cinque anni dopo la sua prima uscita.

If you believe | Sasha
(Dedicated to ..., 1998)
Il tedesco Sascha Schmitz raggiunse il successo internazionale con questo successoche fece da traino all’album d’esordio “Dedicated to…” premiato col disco di platino.

Narcotic | Liquido
(Narcotic, 1998)
Band alternative tedesca, sciolta nel 2009. Un riff di tastiera da lavaggio del cervello.

Iris | The Goo Goo Dolls
(Dizzy up the girl, 1998)
Una corposa power ballad scritta da John Rzeznik, cantante e chitarrista dei Goo Goo Dolls, per la colonna sonora del film City of Angels.

Boom, Boom, Boom, Boom!! | Vengaboys
(1998)
Band europop olandese, amante dei travestimenti e del look sopra le righe. Dal 2007 si sono riuniti e non ce n'è più per nessuno. Forse.

Snow on the Sahara | Anggun
(Anggun, 1998)
La bellissima indonesiana, dopo il suo pezzo famoso, ha dovuto duettare anche con Piero Pelù in quell'apice di trash che è "Amore immaginato".

The bad touch | Bloodhound Gang
(Hooray for bobbies, 1999)
Il video con loro vestiti da scimmie, semplicemente mitico. "Io e te baby non siamo che mammiferi, quindi facciamolo come si vede fare su Discovery Channel".

Mambo no. 5 | Lou Bega
(A little bit of mambo, 1999)
"A little bit of Monica in my life". Ascoltata talmente tante volte che fa venire le bolle. Lou Bega è un cantante tedesco di origini italiane ed ugandesi. Il brano è basato sull'omonimo brano registrato da Pérez Prado nel 1952.

You get what you give | New Radicals
(Maybe you've been brainwashed too, 1998)
Dopo l'esperienza nella band, il cantante Gregg Alexander ha scritto anche il brano "The game of love" con cui i Santana vinsero un Grammy nel 2003.

Life | Des'ree
(Supernatural, 1998)
Cantante e compositrice britannica, famosa per due canzoni: "Life" e "You gotta be".

Goodnight moon | Shivaree
(I oughtta give you a shot in the head for making me live in this dump, 1999)
Goodnight moon, un brano carico di influenze country, suadente e notturno, fu in assoluto il primo singolo degli Shivaree, band americana dedita alla sperimentazione di vari generi musicali. registrato nel 1999 e pubblicato poi nel corso del 2000 per la Capitol Records. Spopolò in Italia e in Europa, anche grazie al suo inserimento in diverse colonne, come Kill Bill Vol.2 di Tarantino.

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237 giorni a Natale

Winter Wonderland



Famosa canzone natalizia statunitense, scritta nel 1934, che ha probabilmente contribuito a rafforzare nell'immaginario collettivo l'idea della neve associata al Natale. Nonostante il brano sia associato alla stagione natalizia, il testo non parla esplicitamente del Natale. Si parla comunque di una passeggiata in una giornata d'inverno in un paesaggio innevato, dove passa una slitta con tanto di tintinnio di campane, mentre un uccello canta una canzone d'amore e si pensa a costruire un pupazzo di neve.
Le versioni più note sono probabilmente quelle delle Andrews Sisters e di Perry Como, realizzate nel 1946. [wiki]