The White Stripes

(1997, Detroit, Michigan, USA)

I primi e più creativi di un treno di bands rocchettare piombato sul mondo all’inizio del millennio (il loro primo disco è del 1999, a essere precisi): suono tradizionale, chitarra e batteria, rumorosi quando si deve e acustici quando si vuole. Sono due, Jack White e Meg White, e non sono più marito e moglie da un pezzo (tanto che negano di esserlo mai stati). Lui porta dei gran cappelli e dopo si è fidanzato sempre con certe modelle: l’ultima l’ha sposata.

You’re pretty good looking (for a girl)
(De Stijl, 2000)
Rock démodé, come quando c’erano i Kinks. Qualche anno dopo sarebbero arrivati gli Strokes, gli Hives, i Libertines, i Black Rebel Motorcycle Club, a eccitare gli appesantiti fans del rock chitarresco anni Settanta.

Fell in love with a girl
(White blood cells, 2001)
Neanche due minuti di rivisitazione del punk, con coro fulminante che vi rimane in testa per tutta la settimana. La ragazza gli dice di andare con lei al fiume, a baciarsi, e che per Bobby non è un problema. Ci vorrebbero più Bobby, al mondo.

We’re going to be friends
(White blood cells, 2001)
Ok, gran calma, mettetevi tranquilli ora. Voce e chitarra, melodia dondolante. Ricordi da primo giorno di scuola e dell’eccitazione di aver individuato un nuovo amico. Ne ha fatto una cover Jack Johnson, non a caso per la colonna sonora del cartone animato Curious George.

Dead leaves and the dirty ground
(White blood cells, 2001)
Un rocchettone sentimentale pieno di metafore e paragoni, come le foglie secche del titolo, ancora pieno di ammiccamenti ai grandi casinari del passato, dagli Who agli AC/DC. Anche se l’ascoltatore italiano nota innanzitutto il passaggio identico a “Pigro” di Ivan Graziani.

Hotel Yorba
(White blood cells, 2001)
L’Hotel Yorba è a Detroit, e si dice che la canzone sia stata scritta là: chissà cosa ci facevano in albergo, nella loro città. Secondo un’altra voce, dopo che ebbero cantato – su un formidabile ritmetto country – quanto fosse bello vedersi all’Hotel Yorba perché le stanze erano sempre tutte vuote, quelli dello Yorba si seccarono parecchio.

Seven nation army
(Elephant, 2003)
La grandezza di “Seven nation army” è dimostrata dalla sua leggendaria storia di successo da stadio. Non si è mai capito esattamente se il gigantesco riff di chitarra (sembra un basso, ma è una chitarra: e fu inventato durante le prove di un concerto australiano) sia stato trasformato in un coro da curva dai tifosi di una squadra scozzese o da quelli belgi. Ma i romanisti lo impararono da questi ultimi, lo fecero arrivare fino al palco di Sanremo quando a presentare il festival ci fu la signora Totti, e poi divenne il tormentone della vittoria dell’Italia ai mondiali del 2006.
Il titolo è un equivoco infantile di Jack White, che da piccolo interpretava così l’espressione “Salvation army” (l’Esercito della Salvezza). E per chiudere con i riferimenti infantili, la musica si presta benissimo a una reinterpretazione di “Stella stellina, la notte si avvicina”.
Tante sono le cover: qui propongo quelle di Ben l'Oncle Soul, Zella Day e Scott Bradlee's Postmodern Jukebox.

I just don’t know what to do with myself
(Elephant, 2003)
Una delle più belle canzoni di Burt Bacharach, fu raccolta dai White Stripes con lo snobismo artistico tipico della band: la riarrangiarono rock, lui gridacchia un po’ troppo, ma sulla strofa non può che disciplinarsi all’originale. Il video fu diretto da Sofia Coppola (e c’era Kate Moss).

My doorbell
(Get behind me Satan, 2005)
Pezzaccio spiritosissimo: si sono buttati sul pianoforte, in una via di mezzo tra i Led Zeppelin e James Brown, e un falsetto che sintetizza Michael Jackson e Brian Johnson degli AC/DC. Un’araba fenice rock.


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