Stereophonics

(1996, Cwmaman, Galles)

Gli Stereophonics sono una sanguigna rock band gallese, con un piede nei pub e l’altro negli stadi britannici in cui danno il loro meglio. Hanno avuto un momento di grossa popolarità internazionale con i primi due dischi, poi hanno continuato a fare un onesto lavoro, tuttora premiato da vendite cospicue nei paesi di lingua inglese.

Traffic
(Word gets around, 1997)
Le cose che si vedono dalla macchina, guidando, fermi al semaforo, bloccati da un ingorgo: le persone, che si vedono dalla macchina, le ipotesi che si fanno su di loro. “Vanno davvero tutti da qualche parte?”.

Goldfish bowl
(Word gets around, 1997)
Mezzo verso solo cantato, e poi arriva il resto della band. Rock di chitarre, batteria e armonica come lo si faceva ai vecchi tempi, sulla vita sbilenca che facciamo arrabattandoci come matti, e siamo come in una boccia dei pesci, nuotare o affogare.

Billy Davey’s daughter
(Word gets around, 1997)
Lei si è buttata dal ponte, tremendo ricordo d’infanzia del leader della band Kelly Jones, e nient’altro è detto o raccontato per spiegare cosa le era successo. È bella proprio per questa semplicità di dolore, che concentra tutto solo sulla morte, in versi minimi e stupendi:
Billy Davey’s second daughter
threw herself to dirty water
Billy’s left with nothing but a dream

A minute longer
(Performance and cocktails, 1999)
“I’d like to stay a minute longer.” Come dicevano i Pooh, “dammi solo un minuto”. E Carla Bruni ci chiuse il suo bel disco acustico, con la supplica all’ascoltatore: “Juste encore une minute” (citando quella marchesa parigina che davanti alla ghigliottina, durante il Terrore, chiedeva “ancora un minuto, signor boia”). Insomma, l’unità di misura del mendicare tempo è indubbiamente quella, i sessanta secondi. Anche se poi un minuto non basta mai a nessuno.

Maybe
(Just enough education to perform, 2001)
Band di poche certezze, gli Stereophonics raggiunsero la loro maggiore fama con una canzone intitolata “Forse domani”, che era stata preceduta da questa “Forse”, con simile andamento da rock ballad. Fossero spiritosi, nel prossimo disco metterebbero una “Forse la settimana prossima”.

Handbags and gladrags
(Just enough education to perform, 2001)
Un vecchio pezzo di Rod Stewart (in realtà l’aveva scritta Mike D’Abo, cantautore dall’eclettico curriculum: fu cantante di una band popolare negli anni Sessanta, i Manfred Mann; fece la parte di Erode a teatro in Jesus Christ Superstar; scrisse la allegrissima canzonetta dei Foundations “Build me up buttercup”).

Have a nice day
(Just enough education to perform, 2001)
"So have a nice day"

Maybe tomorrow
(You gotta go there to come back, 2003)
La loro più bella canzone – “forse domani troverò la strada per tornare a casa” – raccolse nuove attenzioni planetarie quando fu utilizzata postuma sui titoli di coda di Crash (quello bello, dei molti Crash cinematografici: quello che ha vinto l’Oscar nel 2006). Il coretto ci sta come il cacio sui maccheroni, non come i cavoli a merenda (ho sempre fatto confusione): insomma, come la ciliegina sulla torta.

Dakota
(Language, sex, violence. Other?, 2005)
Quando gli Stereophonics erano lì da un pezzo e sembrava avessero sfruttato ed esaurito il loro credito di potenziale successo con il mondo, arrivò inatteso il loro singolo più venduto di sempre non solo in Inghilterra ma anche in America. In effetti è un rocchettone radiofonico – con chitarre à la U2 – più americano delle loro solite cose, in cui si ricorda un amore da ragazzi: passavamo il tempo nella mia macchina (ma non abbiamo mai combinato niente sul serio), e mi facevi sentire unico. Chissà dove sarai, ora.


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