Bright Eyes

(1998, Omaha, Nebraska, USA)

All’inizio del millennio, Conor Oberst era la promessa della musica cosiddetta alternative americana, il nuovo Bob Dylan. Neanche vent’anni, e sfornava canzoni come panini, con arrangiamenti sanguigni e testi complessi e tormentati. I Bright Eyes sono lui, e musicisti e amici cooptati di volta in volta. Mai esplosi, ormai sono diventati un’istituzione creativa, molto amati e molto odiati (lui se la tira un po’, in effetti), lontani dalla possibilità di grandi successi ma degnati di pagine intere su Time.

Touch
(Letting off the happiness, 1998)
Diciotto anni, e primi assaggi di elettronica che si affacciano su un trascinante inno rock affollato di strofe, a momenti gridato, esaltante e struggente. Insomma, tutto quello che saranno i Bright Eyes d’ora in poi.

A perfect sonnet
(Every day and every night, 1999)
Lately I’ve been wishing I had one desire
something that would make me never want another
something that would make it so that nothing matter
s all would be clear then

but I guess i’ll have to settle for a few brief moments
and watch it all dissolve into a single second
try to write it down into a perfect sonnet
or one foolish line

An attempt to tip the scales
(Fevers and mirrors, 2000)
Un esempio perfetto della grandezza di Oberst nel mettere su ballate musicalmente basiche, dolcissime e poetiche. In coda alla canzone c’è un’intervista radiofonica (forse posticcia) in cui lui racconta a un imbarazzato e sciocco deejay la morte di suo fratello.

Going for the gold
(Oh holy fools, 2001)
Una volta chiesero a Oberst come mai nelle sue canzoni non si ripetevano mai identici dei refrain, né dei versi: «Con quello che dura una canzone e tutto quello che ho da dire, vi pare che mi possa permettere di ripetere dei versi?». Qui è meravigliosa quando fa: “and though I know that my actions are impossible to justify...”.

No lies, just love
(Oh holy fools, 2001)
Oberst sa fare una cosa come nessuno: scatenare la sua voce appassionata e sofferta in enfatiche e commoventi aperture, portandosi dietro tutta la banda. Questo è il racconto di una voglia di morire, delle pillole comprate, e della salvezza nelle poche parole di un amico e nella nascita di un nipote, il figlio di suo fratello:
So when your new eyes meet mine,
they won’t see no lies
Just love
Just love

You will. You? Will. You? Will. You? Will
(Lifted or the story is in the soil, keep your ear to the ground, 2002)
You say that I treat you like a book on a shelf
I don’t take you out that often ’cause I know
that I completed you and that’s why you are here

Let’s not shit ourselves (To love and to be loved)
(Lifted or the story is in the soil, keep your ear to the ground, 2002)
Un racconto, letteralmente, letterariamente. Un capitolo di un romanzo, un fiume di 593 parole (“Yesterday” ne ha 125, per fare un paragone), senza più versi, rime o strofe. Una specie di comizio, drammatico, incazzato – e palesemente autocompiaciuto – a un ritmo scatenato e allegro quanto il finale incoraggiante, dopo tentativi di suicidio e presidenti cowboy. Geniale.

Lover I dont' have to love
(Lifted or the story is in the soil, keep your ear to the ground, 2002)

You write such pretty words / But life’s no storybook Love’s an excuse to get hurt / And to hurt. / Do you like to hurt? I do, I do

False advertising
(Lifted or the story is in the soil, keep your ear to the ground, 2002)
A un certo punto della carriera, uno si preoccupa di essersi venduto, di non essere più se stesso, di recitare una parte (è capitato anche a Bennato e a Vecchioni): “fuck my face, fuck my name”, io non sono che una falsa pubblicità di un’anima che non ho. Per fortuna c’è una canzone, e le persone a cui voglio bene, e facciamo una bella festa e venga chiunque. Un valzer, dolcissimo e amaro, pieno di trovate teatrali.

Drunk kid catholic
(Drunk kid catholic, 2001)
“I ragazzi ubriachi e i cattolici, si somigliano. Aspettano entrambi che qualcosa li salvi”. Lui appartiene ai primi (e ha studiato in una scuola dei secondi), e cerca di farsi passare la tranvata sentimentale a forza di sbronze. Pianoforte, filastrocca canticchiabile, uscì solo come mini cd.

Easy/Lucky/Free
(Digital ash in a digital urn, 2005)
I fans affezionati storsero (si dice, storsero?) il naso, quando nel 2004 Oberst fece uscire assieme due dischi, uno dei quali apparentemente “elettronico”. In realtà l’anomalia non andava oltre un semplice uso di strumentazioni diverse, ma l’andamento delle canzoni era del tutto analogo. E quando poi fece dal vivo le stesse canzoni – con gli arrangiamenti più consueti – raddrizzò il naso dei presenti ai concerti.

Old soul song (for the new world order)
(I’m wide awake it’s morning, 2005)
La “vecchia canzone soul” non è questa: lui la sente uscire da una radio mentre va a una manifestazione pacifista (il nuovo ordine mondiale del titolo, invece, è quello della dottrina Bush), dove scoppia un casino con la polizia e poi fa delle fotografie e va a stamparle e a un certo punto sbocciano dei fiori da qualche parte. Ma insomma, quando fa “yeah, they go wild!”, è grande.

First day of my life
(I’m wide awake it’s morning, 2005)
Aveva un video stupendo di coppie riprese mentre ascoltano con le cuffie la canzone. È una rara canzone d’amore lieve e felice, senza ironie, dubbi o ansie, con Oberst che arpeggia la chitarra, ed è contento.
Besides maybe this time is different
I mean I really think you like me.



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