Moby

(1965, Darien, Connecticut, USA)

Moby era un deejay newyorkese che aveva già inciso dei cd dance un po’ techno, un po’ ambient, e un po’ tutte queste definizioni necessarie alla sopravvivenza della critica musicale e incomprensibili alle persone normali. Musica originale, nel suo genere, ricca di citazioni e suoni accatastati da varie provenienze: ottima nelle discoteche, ostica per il grande pubblico. Poi, nel 1999 Moby fece un disco appiccicando frammenti di vecchi blues e ritmi elettronici, saldandone le ripetitività. Ebbe a cuore di non essere troppo ansiogeno, di salvaguardare la melodia, di fare per la prima volta della musica addirittura canticchiabile. Negli Stati Uniti ricevette diversi premi ed encomi critici. Diventò lentamente di culto in un’estesa nicchia modaiola e futurista, ma ci volle la colonna sonora di The Beach e una valanga di spot pubblicitari che usarono le sue canzoni per farlo diventare il primo grande boom discografico del nuovo millennio. Dopo passò un po’ di moda e non se ne preoccupò.

Why does my heart feel so bad?
(Play, 1999)
Grande attacco di pianoforte, che funziona sempre anche se gli anni d’oro della house erano passati. E poi un blues potente, sostenuto dall’escalation scratchata di “these open doors”.

Porcelain
(Play, 1999)
Fu quando la musica elettronica divenne radiofonica. Se all’inizio sembra una cosa suonata all’incontrario è perché è una cosa (tastiere) suonata all’incontrario. Poi si accatastano suoni e suoni, fino allo straordinario passaggio celestiale ai due minuti e undici.

Honey
(Play, 1999)
Let my honey come back, sometimes I want him right back jack, sometimes I get a hump in my back, sometimes I’m going over the hill, sometimes.
Ritmo formidabile, molto Fatboy Slim, l’altro genio del campionamento in circolazione nello stesso periodo.

Natural blues
(Play, 1999)
In effetti è un remix della canzone a cappella originariamente intitolata "Trouble so hard"della folk singer americana Vera Hall

We are all made of stars
(18, 2002)
People that come together, people that fall apart, no one can stop us now, ‘cause we are all made of stars.
Il primo singolo dal cd successivo a quello della conquista del mondo fu una cosa fatta più a forma di canzone, con meno campionamenti e trucchetti, e Moby che cantava intorno a un gran riff di chitarra. Lui lo definì un pezzo new wave, ed è vero: avrebbero potuto farlo gli Psychedelic Furs.

I’m not worried at all
(18, 2002)
Il meccanismo di Play però fu applicato ancora, questa volta attingendo più al repertorio soul che a quello blues, e aggiungendo i soliti pianoforte e tastiere elettroniche eteree. “I’m not worried at all” è la musica che suona durante un sogno.

In my heart
(18, 2002)
Giro frenetico di piano e canto soul che monta e monta, buono per una ripresa che allarghi progressivamente il campo, sempre di più, sempre di più, “just in my heart, oh Lord, just in my heart, oh Lord!”.

Lift me up
(Hotel, 2005)
Hotel invece se lo suonò e cantò tutto da sé, senza campionamenti (solo con un batterista di rincalzo), e qualcosa si perse: ma è vero che l’idea precedente era stata forse spremuta a sufficienza. “Lift me up” fu il primo singolo, con un refrain appiccicoso, se solo si capisse cosa dice (”Lift me up, lift me up, higher nowama”).

Forever
(Hotel, 2005)
Sempre più verso una post-new wave, in questo caso del genere tenebroso e ipnotico. Solo il testo è romanticamente sdolcinato, una buona idea: “ho guardato il sole sfiorarti mentre dormivi”.

Slipping away
(Hotel, 2005)
Hold on to people they’re slipping away
Hold on to this while it’s slipping away
Questo brano Moby lo ha “duettato” con alcune “star” della canzone europea come Eva Amaral e Mylène Farmer.

Mistake
(Wait for me, 2009)
Non si capisce bene se abbia sbagliato a lasciare qualcuno e ora sia disperato e prometta di stare più attento in futuro, o se sia stato lasciato da qualcuno e ora sia disperato e prometta di stare pù attento ai guai in cui si metterà d’ora in poi. Comunque è disperato.


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